Faccio colazione in una delle tante boulangerie francesi sparse per Hobart. Fra quattro ore lascio la Tasmania, fra ventisei l'Australia.
Cerco di non farmi prendere dalla nostalgia, non ancora per il momento.
Ho passato un breve fine settimana in questa terra selvaggia e sferzata dal vento, troppo poco per farsi un'idea precisa, anche se qualche timida considerazione credo me la permetterò.
Il sabato mattina é dedicato al mercato di Salamanca, dove dietro bancarelle di ogni dimensione, venditori semi assiderati propongono la loro mercanzia. Tutta obbligatoriamente Made in Tasmania. Un'ottima occasione per comprare qualche regalino e tirar tardi ascoltando qualche orchestrina jazz prima di lasciare Hobart per Richmond, trenta km piú a est.
Richmond ospita la chiesa e il ponte piú antichi d'Australia, che portano orgogliosamente data 1823. Praticamente affondano le loro radici nella notte dei tempi.
A parte gli scherzi, sotto un certo punto di vista é anche vero se si pensa che la Tasmania é stata scoperta dagli Europei solo all'inizio del 1800 e che dei circa 6000 aborigeni che vi hanno trovato, solo una (Truganini) é sopravvissuta fino al 1860, mentre gli altri sono stati massacrati dalla violenza dei conquistatori o dalle malattie importate dall'Europa nel giro di molto meno tempo.
Quindi non stupisce piú di tanto che la Tasmania abbia una storia cosí piccola, cosí corta. Perché quello che accadde dopo é ancora peggiore, se possibile. La Tasmania divenne la prigione degli Inglesi, che spedivano qui i propri criminali per periodi che andavano da 7 anni a per sempre.
I criminali venivano ospitati a Port Arthur, dove vivevano in catene quasi la totalità della loro vita per crimini banali quali il furto o l'aggressione.
Non essendoci molto piú di questo in questo lato del mondo, l'intraprendenza imprenditoriale di questa popolazione si é inventata (o forse meglio, tramanda dalla tradizione) una serie di suggestive storie di spiriti e fantasmi che popolano la zona di Port Arthur e che di tanto in tanto si manifestano in strani luccichii nelle foto di qualche turista poco abile col flash.
La verità é che questa lingua di terra che si spinge a sud ha davvero un'aura misteriosa; complici le nuvole che corrono veloci e il mare nero e tumultuoso, al calare del sole ci si sente davvero in posto spettrale, dove si respira che una parte dei debiti della storia non é ancora stata pagata.
Port Arthur, forse qualcuno se lo ricorderà, è balzata al centro delle cronache mondiali una decina di anni fa, quando un giovane partí da Hobart con una sacca piena di armi semi-automatiche e fece massacro di 35 persone all'ingresso del villaggio, per poi barricarsi all'interno di una guest house con un ostaggio che uccise 18 ore dopo, immediatamente prima di consegnarsi alla polizia.
Martin Bryant, questo il suo nome, sta scontando 35 ergastoli presso l'istituto penitenziario di Hobart e a seguito del suo atto venne modificata la legge sulla detenzione delle armi in Australia. Questo per completezza d'informazione, anche se nessuno da queste parti ne parla volentieri.
sabato 18 agosto 2012
venerdì 17 agosto 2012
Non sono schiava di 40 dollari.
La Tasmania mi accoglie con una pioggia torrenziale che anche adesso, quasi sei ore dopo il mio arrivo, non accenna in nessun modo a diminuire. Ho fatto una delle mie e, facendo la prenotazione dell'alloggio qui a Hobart, mi sono fatta travolgere da un eccesso di turbo risparmio. L'esperienza me l'ha insegnato ormai varie volte: io non devo fare questi tentativi, perché poi me ne pento quasi immediatamente. Vista la qualitá degli ostelli dove ho dormito a Cairns, Brisbane e Newcastle, ho optato per la stessa soluzione anche qui: l'atmosfera giovane e multiculturale del Central City Backpackers Hostel.
La giovane ragazza alla reception é gentilissima e mi racconta delle sue vacanze in Chianti, mentre uno strano odore di cavolo bollito pervade i corridoi intorno. Salgo le scale e l'odore si fa piú pungente.
Arrivo alla mia camera, cerco di non guardarmi troppo intorno e mi butto sotto la pioggia. Esplorando una città sconosciuta che tanto assomiglia a quelle dell'estremo nord del mondo, anche se da qui all'Antartico ci sono solo 3500 km.
Rientro verso le cinque, con il freddo nelle ossa e la stanchezza di una giornata in giro, camminando sotto la pioggia.
Per tutto il giorno ho avuto negli occhi la tristezza della mia stanzetta buia e umida, la moquette lurida e le pareti scrostate, combattendo fra voglie alternate di andare e restare.
La struttura mi accoglie ora con sacchi del rudo nel corridoio e l'aspetto multiculturale si manifesta con evidenza negli indiani che cucinano con le porte aperte, nel disagio giovanile diffuso e nella puzza di spezie che prende la testa... Ovviamente bagno in comune. In quali condizioni non ho osato guardare.
Alcune frasi hanno segnato la mia vita e il mio modo di essere. Sono le ultime tre notti che passo in Australia e mi interessa poco se ho giá pagato per il tugurio in cui mi trovo.
In meno di dieci minuti apro booking.com, seleziono un albergo nelle vicinanze, lo prenoto, raccatto le mie cose e scendo alla reception. Neanche vedo il gruppetto di persone che si sta scaldando una zuppa in mezzo alle scale.
Due secondi per raccontare che ho avuto un imprevisto e che devo rientrare a Sydney immediatamente.
Mi restituiscono i soldi della notte di domani e io, bella come il sole, attraverso la strada verso il mio nuovo e bellissimo Holiday Inn, che non sarà cosmopolita e multiculturale, ma perlomeno é pulito e riscaldato.
Adesso la mia prima sera a Hobart ha una luce tutta nuova.
La giovane ragazza alla reception é gentilissima e mi racconta delle sue vacanze in Chianti, mentre uno strano odore di cavolo bollito pervade i corridoi intorno. Salgo le scale e l'odore si fa piú pungente.
Arrivo alla mia camera, cerco di non guardarmi troppo intorno e mi butto sotto la pioggia. Esplorando una città sconosciuta che tanto assomiglia a quelle dell'estremo nord del mondo, anche se da qui all'Antartico ci sono solo 3500 km.
Rientro verso le cinque, con il freddo nelle ossa e la stanchezza di una giornata in giro, camminando sotto la pioggia.
Per tutto il giorno ho avuto negli occhi la tristezza della mia stanzetta buia e umida, la moquette lurida e le pareti scrostate, combattendo fra voglie alternate di andare e restare.
La struttura mi accoglie ora con sacchi del rudo nel corridoio e l'aspetto multiculturale si manifesta con evidenza negli indiani che cucinano con le porte aperte, nel disagio giovanile diffuso e nella puzza di spezie che prende la testa... Ovviamente bagno in comune. In quali condizioni non ho osato guardare.
Alcune frasi hanno segnato la mia vita e il mio modo di essere. Sono le ultime tre notti che passo in Australia e mi interessa poco se ho giá pagato per il tugurio in cui mi trovo.
In meno di dieci minuti apro booking.com, seleziono un albergo nelle vicinanze, lo prenoto, raccatto le mie cose e scendo alla reception. Neanche vedo il gruppetto di persone che si sta scaldando una zuppa in mezzo alle scale.
Due secondi per raccontare che ho avuto un imprevisto e che devo rientrare a Sydney immediatamente.
Mi restituiscono i soldi della notte di domani e io, bella come il sole, attraverso la strada verso il mio nuovo e bellissimo Holiday Inn, che non sarà cosmopolita e multiculturale, ma perlomeno é pulito e riscaldato.
Adesso la mia prima sera a Hobart ha una luce tutta nuova.
mercoledì 15 agosto 2012
48 ore alle Blue Mountains
Arriviamo alle Blue Mountains nel primo pomeriggio del giorno di Ferragosto. Temperatura esterna intorno agli 8 gradi. Solo 100 km piú a nord di Sydney non é solo la temperatura ad essere diversa, ma la vita.
Una serie di paesini con casette colorate che poco o niente sono stati toccati dalla vita piú moderna (ma mai frenetica) di Sydney.
Le Blue Mountains racchiudono una lunga serie di storie e leggende che le rendono ancora piú affascinanti e misteriose.
Per anni queste colline (perché montagne davvero non sono) hanno rappresentato un limite invalicabile per i coloni europei, che quando si spinsero per la prima volta fino alle pendici di questi monti, si prodigarono in improbabili teorie su cosa avrebbero trovato dall'altra parte. Le due teorie maggiormente accreditate erano che ci fosse il mare, o magari la Cina - e la libertà.
Percorriamo in auto la Great Western Hwy che segue il percorso tracciato dai primi esploratori agli inizi del 1800.
Il primo paesino che incontriamo é Leura, con stradine alberate, residenze in stile art déco e ampie verande protese verso un bel tempo che spesso si trova da queste parti, ma sempre lasciando all'aria la freschezza delle colline.
Piú turistica (e di fatto la cittadina piú grande della zona) é invece Katoomba, giá località di villeggiatura dei sydneysiders (gli abitanti di Sydney) a partire dagli anni '20 e '30.
L'attrattiva principale di Katoomba é la straordinaria Jamison Valley, dove spiccano le altrettanto famose Three Sisters.
La leggenda racconta che le tre sorelle furono trasformate in pietra da un mago per proteggerle dalle pressanti attenzioni di altrettanti giovanotti, ma il mago morí prima di poter restituir loro le sembianze umane.
Con nostra somma gioia.
Vengo ospitata in un bellissimo cottage appena fuori Blackheath, un paesino piccolo e grazioso molto meno frequentato dai turisti.
Le montagne blu, per l'alone rilasciato dalle piante di eucalipto che ricoprono le montagne, sono ferme nel tempo e immobilizzano anche chi si spinge fino qui. Una calma e una tranquillità che ha caratterizzato buona parte di questo viaggio, ma che qui si fa ancora piú evidente.
Nessuna vita nel paese quando, dopo aver sorseggiato uno sherry davanti al camino, cerchiamo di mangiare qualcosa al pub locale. Solo un piccolo ristorante italiano (che di italiano ha solo il nome) ci serve un piatto di pasta scotta alla tarda ora delle 20.
Prima ancora che il vino rosso che la accompagna ci annebbi la mente, siamo a letto. Fuori il vento della montagna e il profumo degli eucalipti.
Una serie di paesini con casette colorate che poco o niente sono stati toccati dalla vita piú moderna (ma mai frenetica) di Sydney.
Le Blue Mountains racchiudono una lunga serie di storie e leggende che le rendono ancora piú affascinanti e misteriose.
Per anni queste colline (perché montagne davvero non sono) hanno rappresentato un limite invalicabile per i coloni europei, che quando si spinsero per la prima volta fino alle pendici di questi monti, si prodigarono in improbabili teorie su cosa avrebbero trovato dall'altra parte. Le due teorie maggiormente accreditate erano che ci fosse il mare, o magari la Cina - e la libertà.
Percorriamo in auto la Great Western Hwy che segue il percorso tracciato dai primi esploratori agli inizi del 1800.
Il primo paesino che incontriamo é Leura, con stradine alberate, residenze in stile art déco e ampie verande protese verso un bel tempo che spesso si trova da queste parti, ma sempre lasciando all'aria la freschezza delle colline.
Piú turistica (e di fatto la cittadina piú grande della zona) é invece Katoomba, giá località di villeggiatura dei sydneysiders (gli abitanti di Sydney) a partire dagli anni '20 e '30.
L'attrattiva principale di Katoomba é la straordinaria Jamison Valley, dove spiccano le altrettanto famose Three Sisters.
La leggenda racconta che le tre sorelle furono trasformate in pietra da un mago per proteggerle dalle pressanti attenzioni di altrettanti giovanotti, ma il mago morí prima di poter restituir loro le sembianze umane.
Con nostra somma gioia.
Vengo ospitata in un bellissimo cottage appena fuori Blackheath, un paesino piccolo e grazioso molto meno frequentato dai turisti.
Le montagne blu, per l'alone rilasciato dalle piante di eucalipto che ricoprono le montagne, sono ferme nel tempo e immobilizzano anche chi si spinge fino qui. Una calma e una tranquillità che ha caratterizzato buona parte di questo viaggio, ma che qui si fa ancora piú evidente.
Nessuna vita nel paese quando, dopo aver sorseggiato uno sherry davanti al camino, cerchiamo di mangiare qualcosa al pub locale. Solo un piccolo ristorante italiano (che di italiano ha solo il nome) ci serve un piatto di pasta scotta alla tarda ora delle 20.
Prima ancora che il vino rosso che la accompagna ci annebbi la mente, siamo a letto. Fuori il vento della montagna e il profumo degli eucalipti.
martedì 14 agosto 2012
In autobus sulla Gold Coast
Non saprei dire il momento esatto in cui l'idea di fare questi 2000 km e piú in autobus mi é balenata nella mente.
Molto piú facile é senz'altro dire quanti e quali sono stati i momenti in cui me ne sono pentita.
Ma andiamo con ordine.
Parto da Brisbane, come giá detto, alle 7. Salgo sull'autobus per fare la prima ora e mezza di strada fino a Surfers Paradise. Solo il nome apre la mente verso spiagge assolate e surfisti ad ogni angolo, ma peccato sia inverno. E peccato siano solo le 8.20 di un lunedí quando arrivo. Vado verso la spiaggia, che sotto al sole della mattina é deserta ed incantevole. Qualche volenteroso fa jogging, qualcuno va in bicicletta. Una calma surreale, con vento, mare e sole. Nient'altro. Mi fermo sul lungo mare, bevo un cappuccino leggendo il mio nuovo libro, "Marinai perduti" di Jean-Claude Izzo.
Riparto alle 11.15 alla volta di Byron Bay. La guida é stata a mio parere fin troppo clemente con questo paesino che sembra uscito direttamente dagli anni '60. Il pullman, nel frattempo, mi presenta il primo inconveniente: il deposito bagagli chiude alle sei, mentre io ho il biglietto alle 22.55 mentre giá mi vedo a caricarmi sulla schiena 17 chili di roba per circa 5 ore, il gentile bigliettaio mi informa che volendo potrei prendere l'autobus alle 20 e ridurre di un po' l'attesa. E cosí in effetti faccio. Il vero problema comunque é che una volta arrivati al bellissimo faro (5 km andare e altrettanti a tornare), in questo ameno paesino non c'è assolutamente niente da fare. Mentre sono seduta su una panchina a pensare come impiegare le successive due ore, vedo il cartello che
un non meglio identificato Matt Kano tiene un concerto proprio davanti alla fermata dell'autobus. Decido che non posso perdermelo. Mangio qualcosa, bevo un paio di birrini e sono le otto in un lampo. Quando, tutto d'un tratto, mi viene l'ansia: ma ci faranno fermare a fare la pipí? Il Greyhound di tanti film e telefilm, si ferma per fare andare in bagno i suoi passeggeri? Nella non certezza della risposta, bevo un'unica birra tutta in una volta e ascolto il concerto (peraltro molto perdibile) concentrandomi esclusivamente sul cercare di fare la pipí il piú in fretta possibile e farla, cosa ancora piú difficile, assolutamente tutta.
Missione compiuta, perché partiamo alle 20 senza nessun problema e facciamo ben due soste: una a mezzanotte e l'altra alle cinque. Questo nel caso qualcuno si trovasse da qualche parte con i miei stessi dubbi.
Sono arrivata a Newcastle stamattina alle 6.20, mentre albeggiava. Nel porto stava entrando la prima nave mercantile della giornata, mentre molte altre aspettavano in rada il loro turno per entrare. Il mare nel porto é liscio come fosse olio, del colore dorato del sole che sorge.
Di nuovo qualcuno corre sul lungo mare; io lascio la mia sacca e inizio a visitare una città che al momento sta ancora dormendo e che in questo, e poco altro, racchiude gran parte del suo fascino.
Domani alle 9 sono di nuovo sull'autobus.
Ancora 200 km per tornare a Sydney.
Ancora due tappe prima che quest'avventura finisca.
Molto piú facile é senz'altro dire quanti e quali sono stati i momenti in cui me ne sono pentita.
Ma andiamo con ordine.
Parto da Brisbane, come giá detto, alle 7. Salgo sull'autobus per fare la prima ora e mezza di strada fino a Surfers Paradise. Solo il nome apre la mente verso spiagge assolate e surfisti ad ogni angolo, ma peccato sia inverno. E peccato siano solo le 8.20 di un lunedí quando arrivo. Vado verso la spiaggia, che sotto al sole della mattina é deserta ed incantevole. Qualche volenteroso fa jogging, qualcuno va in bicicletta. Una calma surreale, con vento, mare e sole. Nient'altro. Mi fermo sul lungo mare, bevo un cappuccino leggendo il mio nuovo libro, "Marinai perduti" di Jean-Claude Izzo.
Riparto alle 11.15 alla volta di Byron Bay. La guida é stata a mio parere fin troppo clemente con questo paesino che sembra uscito direttamente dagli anni '60. Il pullman, nel frattempo, mi presenta il primo inconveniente: il deposito bagagli chiude alle sei, mentre io ho il biglietto alle 22.55 mentre giá mi vedo a caricarmi sulla schiena 17 chili di roba per circa 5 ore, il gentile bigliettaio mi informa che volendo potrei prendere l'autobus alle 20 e ridurre di un po' l'attesa. E cosí in effetti faccio. Il vero problema comunque é che una volta arrivati al bellissimo faro (5 km andare e altrettanti a tornare), in questo ameno paesino non c'è assolutamente niente da fare. Mentre sono seduta su una panchina a pensare come impiegare le successive due ore, vedo il cartello che
un non meglio identificato Matt Kano tiene un concerto proprio davanti alla fermata dell'autobus. Decido che non posso perdermelo. Mangio qualcosa, bevo un paio di birrini e sono le otto in un lampo. Quando, tutto d'un tratto, mi viene l'ansia: ma ci faranno fermare a fare la pipí? Il Greyhound di tanti film e telefilm, si ferma per fare andare in bagno i suoi passeggeri? Nella non certezza della risposta, bevo un'unica birra tutta in una volta e ascolto il concerto (peraltro molto perdibile) concentrandomi esclusivamente sul cercare di fare la pipí il piú in fretta possibile e farla, cosa ancora piú difficile, assolutamente tutta.
Missione compiuta, perché partiamo alle 20 senza nessun problema e facciamo ben due soste: una a mezzanotte e l'altra alle cinque. Questo nel caso qualcuno si trovasse da qualche parte con i miei stessi dubbi.
Sono arrivata a Newcastle stamattina alle 6.20, mentre albeggiava. Nel porto stava entrando la prima nave mercantile della giornata, mentre molte altre aspettavano in rada il loro turno per entrare. Il mare nel porto é liscio come fosse olio, del colore dorato del sole che sorge.
Di nuovo qualcuno corre sul lungo mare; io lascio la mia sacca e inizio a visitare una città che al momento sta ancora dormendo e che in questo, e poco altro, racchiude gran parte del suo fascino.
Domani alle 9 sono di nuovo sull'autobus.
Ancora 200 km per tornare a Sydney.
Ancora due tappe prima che quest'avventura finisca.
lunedì 13 agosto 2012
Bighellonando per Brisbane
Devo dirlo. So che ci sarà chi non é d'accordo, ma Brisbane -escludendo ovviamente Sydney- rappresenta, per quanto mi riguarda, la città piú bella che abbia visto finora. E visto che ormai questo mese di vagabondaggi sta quasi volgendo al termine, lo posso dire con tranquillità.
Brisbane ha il fascino della grande città, ma non ti assilla come Melbourne. Né ti abbandona come invece in certi momenti fa Adelaide.
E questo nonostante alloggiassi probabilmente in uno fra i cinque peggiori ostelli della città.
Brisbane é un composto eterogeneo di casette in federation style e grattacieli, di immensi spazi verdi e costruzioni neo classiche. Tutto coccolato dal Brisbane River che, solo all'interno della città, compie qualcosa come dieci anse in modo che la sua brillantezza sia visibile da ovunque si guardi.
E non c'entra che a Brisbane io abbia abbracciato un koala, un esserino sonnolento che non sapeva nemmeno bene cosa stesse facendo. Va bene, d'accordo: questo un po' ha influito nelle lodi su Brisbane... Ma solo un pochino!
C'entrano le persone.
Gli abitanti di Brisbane, giusto perché tutti ne siano a conoscenza, vengono chiamati "cane toads", ossia rospi della canna da zucchero. Questo soprannome viene da una curiosa vicenda accaduta intorno al 1935 quando, nel tentativo di debellare alcuni parassiti della canna da zucchero, vennero introdotti appunto i rospi. In realtà questi rospi risultarono completamente inutili e hanno ignorato platealmente l'esistenza del parassita, limitandosi ad una vivace attività riproduttiva.
Ma al di lá di questo piccolo aneddoto, gli abitanti di Brisbane vivono la loro città come raramente ho visto fare in Italia. Ovunque ci sia un angolo verde c'è anche un barbecue (chiamato affettuosamente Barbie) e una famiglia che si sta rimpinzando di cibo prima di fare una partita a pallone, un'arrampicata sulle scogliere a picco sul fiume o semplicemente un riposino al sole.
Come se non fosse abbastanza, in una delle anse del fiume, in pieno centro, hanno creato una vera e propria spiaggia in miniatura. Con tanto di sabbia e lifeguards, che per la veritá si limitano a controllare una schiera di bambini con ancora il pannolone, ma che comunque sono lí ad aumentare il livello di sicurezza percepita da tutti.
Lascio per ultima la scalata allo Story Bridge, perché fra tutto é stata forse l'unica delusione. Bellissima vista una volta in cima, salita non troppo impegnativa, discesa in corda doppia non fatta per via del vento (e delle preghiere di mia mamma).
Abbandono Brisbane alle 7 del mattino, quando dalla stazione degli autobus di Roma Street salgo sul greyhound che mi farà fare, in due giorni, i quasi 2000 km che mi separano da Sydney...
Brisbane ha il fascino della grande città, ma non ti assilla come Melbourne. Né ti abbandona come invece in certi momenti fa Adelaide.
E questo nonostante alloggiassi probabilmente in uno fra i cinque peggiori ostelli della città.
Brisbane é un composto eterogeneo di casette in federation style e grattacieli, di immensi spazi verdi e costruzioni neo classiche. Tutto coccolato dal Brisbane River che, solo all'interno della città, compie qualcosa come dieci anse in modo che la sua brillantezza sia visibile da ovunque si guardi.
E non c'entra che a Brisbane io abbia abbracciato un koala, un esserino sonnolento che non sapeva nemmeno bene cosa stesse facendo. Va bene, d'accordo: questo un po' ha influito nelle lodi su Brisbane... Ma solo un pochino!
C'entrano le persone.
Gli abitanti di Brisbane, giusto perché tutti ne siano a conoscenza, vengono chiamati "cane toads", ossia rospi della canna da zucchero. Questo soprannome viene da una curiosa vicenda accaduta intorno al 1935 quando, nel tentativo di debellare alcuni parassiti della canna da zucchero, vennero introdotti appunto i rospi. In realtà questi rospi risultarono completamente inutili e hanno ignorato platealmente l'esistenza del parassita, limitandosi ad una vivace attività riproduttiva.
Ma al di lá di questo piccolo aneddoto, gli abitanti di Brisbane vivono la loro città come raramente ho visto fare in Italia. Ovunque ci sia un angolo verde c'è anche un barbecue (chiamato affettuosamente Barbie) e una famiglia che si sta rimpinzando di cibo prima di fare una partita a pallone, un'arrampicata sulle scogliere a picco sul fiume o semplicemente un riposino al sole.
Come se non fosse abbastanza, in una delle anse del fiume, in pieno centro, hanno creato una vera e propria spiaggia in miniatura. Con tanto di sabbia e lifeguards, che per la veritá si limitano a controllare una schiera di bambini con ancora il pannolone, ma che comunque sono lí ad aumentare il livello di sicurezza percepita da tutti.
Lascio per ultima la scalata allo Story Bridge, perché fra tutto é stata forse l'unica delusione. Bellissima vista una volta in cima, salita non troppo impegnativa, discesa in corda doppia non fatta per via del vento (e delle preghiere di mia mamma).
Abbandono Brisbane alle 7 del mattino, quando dalla stazione degli autobus di Roma Street salgo sul greyhound che mi farà fare, in due giorni, i quasi 2000 km che mi separano da Sydney...
venerdì 10 agosto 2012
Esperienza sulla Barriera Corallina 2
Al rientro dalla prima esperienza sulla Barriera Corallina, decido che non potrò vivere un'altra giornata del genere (o perlomeno non in modo cosí ravvicinato) e decido di documentarmi su qualcosa di elitario ma non disperatamente caro, di nicchia ma non da disagiati. Scelgo Frankland Island.
Per prima cosa perché per arrivarci si fanno tre quarti d'ora di fiume e un quarto d'ora di mare aperto, in secondo luogo perché é un'isola completamente disabitata dove si vedono spesso le tartarughe, terzo -ma non meno importante- dovevo in un qualche modo riconciliarmi col mare, viste le ultime vicissitudini.
Quindi parto per fare l'esperienza che mi farà cambiare idea sul GBR, Great Barrier Reef.
Un bussino tonico ci porta circa quaranta minuti fuori Cairns, attraversando campi verdissimi e foresta pluviale per arrivare all'attracco del nostro catamarano. Siamo solo io e un gruppo di circa trenta giapponesi, che da queste parti sembrano essere i turisti piú favoriti e coccolati.
Classica colazione a bordo e nel giro di poco arriviamo all'isola. Una sabbia bianca piena di coralli, palme e vegetazione fittissima, nessuna nuvola in cielo.
I giapponesi, giá vestiti di tutto punto, iniziano la loro prima lezione di snorkeling nei 70 cm d'acqua che abbiamo davanti. Dopo qualche goffo tentativo, la maggior parte di loro decide che il Glass Bottom Boat é piú efficace, meno faticoso, piú asciutto.
Per quanto mi riguarda parto insieme alla mia guida (questa volta brutta e panzuta) per l'ora e mezzo che varrà tutta la giornata.
Col mare calmo e il sole a picco, la barriera corallina ha colori davvero inimmaginabili. Variopinti coralli offrono riparo a crostacei, molluschi e timidi pescetti, che un attimo prima ti guardano e un istante dopo si nascondono, per poi sbirciarti di nuovo, curiosi.
Questa é la più grande barriera corallina del mondo: 2900 barriere collegate tra loro, 900 isole, 345mila chilometri quadrati, oltre 2200 km di lunghezza. Ospita circa 1500 specie di pesci.
Il bello dello snorkeling é che ti fermi, commenti, parli, capisci e guardi di nuovo. Facendo fotografie, provando a scendere in apnea, godendoti ogni istante del tempo sott'acqua, mentre sulla schiena senti il calore del sole.
Eravamo giá in acqua da circa tre quarti d'ora quando improvvisamente, nel blu davanti a me, pigramente appoggiata ad una grossa formazione di corallo, c'era lei. Una tartaruga grandissima, enorme e bellissima. Si è fatta avvicinare, scattare qualche foto e poi, con lentezza e maestosità, se ne è andata.
Mai mi era capitato di assistere ad uno spettacolo simile. Lí sott'acqua, mentre la guardavo, non ho potuto fare a meno di commuovermi.
Rientriamo lungo il fiume fra le mangrovie, mentre il sole inizia a scendere. Ascolto Guccini e penso che raramente sono stata piú felice.
Lascio Cairns con la certezza di aver vissuto un'esperienza straordinaria.
Per prima cosa perché per arrivarci si fanno tre quarti d'ora di fiume e un quarto d'ora di mare aperto, in secondo luogo perché é un'isola completamente disabitata dove si vedono spesso le tartarughe, terzo -ma non meno importante- dovevo in un qualche modo riconciliarmi col mare, viste le ultime vicissitudini.
Quindi parto per fare l'esperienza che mi farà cambiare idea sul GBR, Great Barrier Reef.
Un bussino tonico ci porta circa quaranta minuti fuori Cairns, attraversando campi verdissimi e foresta pluviale per arrivare all'attracco del nostro catamarano. Siamo solo io e un gruppo di circa trenta giapponesi, che da queste parti sembrano essere i turisti piú favoriti e coccolati.
Classica colazione a bordo e nel giro di poco arriviamo all'isola. Una sabbia bianca piena di coralli, palme e vegetazione fittissima, nessuna nuvola in cielo.
I giapponesi, giá vestiti di tutto punto, iniziano la loro prima lezione di snorkeling nei 70 cm d'acqua che abbiamo davanti. Dopo qualche goffo tentativo, la maggior parte di loro decide che il Glass Bottom Boat é piú efficace, meno faticoso, piú asciutto.
Per quanto mi riguarda parto insieme alla mia guida (questa volta brutta e panzuta) per l'ora e mezzo che varrà tutta la giornata.
Col mare calmo e il sole a picco, la barriera corallina ha colori davvero inimmaginabili. Variopinti coralli offrono riparo a crostacei, molluschi e timidi pescetti, che un attimo prima ti guardano e un istante dopo si nascondono, per poi sbirciarti di nuovo, curiosi.
Questa é la più grande barriera corallina del mondo: 2900 barriere collegate tra loro, 900 isole, 345mila chilometri quadrati, oltre 2200 km di lunghezza. Ospita circa 1500 specie di pesci.
Il bello dello snorkeling é che ti fermi, commenti, parli, capisci e guardi di nuovo. Facendo fotografie, provando a scendere in apnea, godendoti ogni istante del tempo sott'acqua, mentre sulla schiena senti il calore del sole.
Eravamo giá in acqua da circa tre quarti d'ora quando improvvisamente, nel blu davanti a me, pigramente appoggiata ad una grossa formazione di corallo, c'era lei. Una tartaruga grandissima, enorme e bellissima. Si è fatta avvicinare, scattare qualche foto e poi, con lentezza e maestosità, se ne è andata.
Mai mi era capitato di assistere ad uno spettacolo simile. Lí sott'acqua, mentre la guardavo, non ho potuto fare a meno di commuovermi.
Rientriamo lungo il fiume fra le mangrovie, mentre il sole inizia a scendere. Ascolto Guccini e penso che raramente sono stata piú felice.
Lascio Cairns con la certezza di aver vissuto un'esperienza straordinaria.
giovedì 9 agosto 2012
Esperienza Barriera Corallina versioni 1A e 1B
Già il titolo fa presagire che a questa esperienza numero 1A seguirà una versione uno 1B, due versioni parecchio discordanti di questo 9 Agosto che sta per finire.
Nella versione A ci sono io che salgo su un catamarano dal nome romantico, che lascia lentamente la baia di Cairns in una mattinata d'inverno scurita solo da qualche nuvola passeggera. La barca solca l'acqua leggera. Davanti a me, l'Oceano. Meno di un'ora e arriviamo al pontile a noi riservato; qualche veloce manovra di attracco e possiamo già indossare muta, maschere e pinne per esplorare il fondale.
Il mio istruttore é bello da togliere il fiato. Si chiama Tom, viene dagli Stati Uniti. East Coast per l'esattezza. Scendo in acqua un po' agitata, una discesa lungo la corda, in un oceano mosso dal vento. Gli dico che ho po' paura, che é forse perché sono lí da sola. Mi stende con semplicità: you're not alone. You're with me. A questo punto potrei essere anche a Viserbella, non ha più importanza.
Per quaranta minuti rimango mano nella mano, insieme andiamo alla scoperta del reef. Pesci di ogni colore mi attraversavano la vista da ogni lato, cetrioli di mare, piccoli fiorellini blu che si spaventano al minimo movimento e si nascondono nella spugna. E poi barracuda, pesci chirurgo, pesci angelo e tre squali. Non per dire. Tre squali davvero. Uno dormiva, ma gli altri gironzolavano tranquilli a meno di cinque metri da noi. They are not aggressive... Probabilmente no. Come non erano "aggressive" i coccodrilli che ci aspettavano dopo il rafting in Zimbabwe. Ho anche creduto di vedere una cernia, ma forse é stato a causa della troppa assiduità nel fondale della Serpentara.
Anche lo snorkeling, per quanto non paragonabile, ha dato qualche bella soddisfazione. Pesciolini bianchi e neri vengono vicino curiosi, mentre pesci molto più grandi si muovono lenti su un fondale di mille colori. Torno a casa in serata felice, con la faccia scura di sole e i capelli secchi di sale.
Nella versione 1B invece, ci sono sempre io che vado a prendere lo stesso catamarano, ma il romanticismo non va più in là del nome. Due solerti ragazzette prendono nome e cognome prima di farti salire a bordo, ti appiccicano un adesivo col tuo nome alla maglietta (come nei peggiori villaggi vacanza) e ti spediscono a fare una foto con in mano un salvagente che altri scopi nella sua vita mai ne ha avuti.
Il catamarano é pieno di gente e lascia il molo della baia di Cairns in perfetto orario. Tempo da lupi.
Solo mezz'ora più tardi si scatena il delirio. In un oceano mossissimo, la gente che fino a un attimo prima si è ingolfata di the e muffin inizia a vomitare nei sacchetti. Io, sdraiata sotto a un tavolo, trovo conforto nel succhiare pian piano dei cubetti di ghiaccio. Il cinese davanti a me, in un impeto di coraggio, cerca di alzarsi e vomita di nuovo in uno dei sacchetti che la prodiga "squadra del vomito" elargisce generosamente. Il pensiero mi va, in meno di un istante, ai Goonies e mi rendo conto di essere nella cosa più terribile che Chunk ha fatto in vita sua. Un'immensa catena del vomito.
Arriviamo al pontile qualche eternità dopo, sperando di trovare finalmente un po' di pace, ma la verità é che sei sulla barriera corallina e il pontile é ancorato, ma non fisso. Non c'è soluzione.
Le mille attività disponibili su questo ameno pontile sono per lo più studiate per il benessere e il divertimento del turista americano medio, con peso almeno sopra i 110 kg. Glass Bottom Boat, elicottero (che sarebbe anche stato bello, se non avessi già avuto la nausea e il tempo fosse stato almeno decente), gite a bordo di una specie di mezzo semi sommerso (sospese nel pomeriggio a causa del maltempo), palloni tipo palombaro per meravigliose camminate sott'acqua. Il tutto condito da un meraviglioso buffet all-you-can-eat che la gente ha attaccato neanche fosse il loro ultimo pasto. Probabilmente per via che lo stomaco era vuoto da prima.
Il rientro, con in corpo due pastiglie allo zenzero e complice un mare un po' più calmo, é stato più rilassante.
Visto che é tutto il giorno che lotto con la chinetosi, mi perdonerete se non ho fatto foto.
Domani di nuovo in barca. Abbiate un pensiero per me.
Nella versione A ci sono io che salgo su un catamarano dal nome romantico, che lascia lentamente la baia di Cairns in una mattinata d'inverno scurita solo da qualche nuvola passeggera. La barca solca l'acqua leggera. Davanti a me, l'Oceano. Meno di un'ora e arriviamo al pontile a noi riservato; qualche veloce manovra di attracco e possiamo già indossare muta, maschere e pinne per esplorare il fondale.
Il mio istruttore é bello da togliere il fiato. Si chiama Tom, viene dagli Stati Uniti. East Coast per l'esattezza. Scendo in acqua un po' agitata, una discesa lungo la corda, in un oceano mosso dal vento. Gli dico che ho po' paura, che é forse perché sono lí da sola. Mi stende con semplicità: you're not alone. You're with me. A questo punto potrei essere anche a Viserbella, non ha più importanza.
Per quaranta minuti rimango mano nella mano, insieme andiamo alla scoperta del reef. Pesci di ogni colore mi attraversavano la vista da ogni lato, cetrioli di mare, piccoli fiorellini blu che si spaventano al minimo movimento e si nascondono nella spugna. E poi barracuda, pesci chirurgo, pesci angelo e tre squali. Non per dire. Tre squali davvero. Uno dormiva, ma gli altri gironzolavano tranquilli a meno di cinque metri da noi. They are not aggressive... Probabilmente no. Come non erano "aggressive" i coccodrilli che ci aspettavano dopo il rafting in Zimbabwe. Ho anche creduto di vedere una cernia, ma forse é stato a causa della troppa assiduità nel fondale della Serpentara.
Anche lo snorkeling, per quanto non paragonabile, ha dato qualche bella soddisfazione. Pesciolini bianchi e neri vengono vicino curiosi, mentre pesci molto più grandi si muovono lenti su un fondale di mille colori. Torno a casa in serata felice, con la faccia scura di sole e i capelli secchi di sale.
Nella versione 1B invece, ci sono sempre io che vado a prendere lo stesso catamarano, ma il romanticismo non va più in là del nome. Due solerti ragazzette prendono nome e cognome prima di farti salire a bordo, ti appiccicano un adesivo col tuo nome alla maglietta (come nei peggiori villaggi vacanza) e ti spediscono a fare una foto con in mano un salvagente che altri scopi nella sua vita mai ne ha avuti.
Il catamarano é pieno di gente e lascia il molo della baia di Cairns in perfetto orario. Tempo da lupi.
Solo mezz'ora più tardi si scatena il delirio. In un oceano mossissimo, la gente che fino a un attimo prima si è ingolfata di the e muffin inizia a vomitare nei sacchetti. Io, sdraiata sotto a un tavolo, trovo conforto nel succhiare pian piano dei cubetti di ghiaccio. Il cinese davanti a me, in un impeto di coraggio, cerca di alzarsi e vomita di nuovo in uno dei sacchetti che la prodiga "squadra del vomito" elargisce generosamente. Il pensiero mi va, in meno di un istante, ai Goonies e mi rendo conto di essere nella cosa più terribile che Chunk ha fatto in vita sua. Un'immensa catena del vomito.
Arriviamo al pontile qualche eternità dopo, sperando di trovare finalmente un po' di pace, ma la verità é che sei sulla barriera corallina e il pontile é ancorato, ma non fisso. Non c'è soluzione.
Le mille attività disponibili su questo ameno pontile sono per lo più studiate per il benessere e il divertimento del turista americano medio, con peso almeno sopra i 110 kg. Glass Bottom Boat, elicottero (che sarebbe anche stato bello, se non avessi già avuto la nausea e il tempo fosse stato almeno decente), gite a bordo di una specie di mezzo semi sommerso (sospese nel pomeriggio a causa del maltempo), palloni tipo palombaro per meravigliose camminate sott'acqua. Il tutto condito da un meraviglioso buffet all-you-can-eat che la gente ha attaccato neanche fosse il loro ultimo pasto. Probabilmente per via che lo stomaco era vuoto da prima.
Il rientro, con in corpo due pastiglie allo zenzero e complice un mare un po' più calmo, é stato più rilassante.
Visto che é tutto il giorno che lotto con la chinetosi, mi perdonerete se non ho fatto foto.
Domani di nuovo in barca. Abbiate un pensiero per me.
mercoledì 8 agosto 2012
Il viaggio è una condizione mentale...
...siete voi a fare il viaggio.
Quando sei anni fa ho sentito per la prima volta questa affermazione, ho pensato che fosse una delle tante cose folli che la gente prima o poi dice, spinta dagli eventi, le circostanze.
Oggi so che non é del tutto falso.
Sono arrivata a Cairns ieri sera alle nove. Scesa dall'aereo l'aria era fresca e profumata. Finalmente é di nuovo estate.
Sono arrivata al mio ostello quasi alle 10 ed é come se fossi stata catapultata quindici anni indietro. In un adolescenza fatta di campeggio, campi estivi, Inter rail, asciugamani portati sulle spalle e doccia in ciabatte. Ogni volta giuro sarà l'ultima e poi per uno strano gioco di destini finisce sempre che il fascino di questi disagi in un qualche modo mi attira.
Mentre scrivo la nostra barca si sta piano piano staccando dal porto e ci dirigiamo verso la Grande Barriera Corallina...
Quando sei anni fa ho sentito per la prima volta questa affermazione, ho pensato che fosse una delle tante cose folli che la gente prima o poi dice, spinta dagli eventi, le circostanze.
Oggi so che non é del tutto falso.
Sono arrivata a Cairns ieri sera alle nove. Scesa dall'aereo l'aria era fresca e profumata. Finalmente é di nuovo estate.
Sono arrivata al mio ostello quasi alle 10 ed é come se fossi stata catapultata quindici anni indietro. In un adolescenza fatta di campeggio, campi estivi, Inter rail, asciugamani portati sulle spalle e doccia in ciabatte. Ogni volta giuro sarà l'ultima e poi per uno strano gioco di destini finisce sempre che il fascino di questi disagi in un qualche modo mi attira.
Mentre scrivo la nostra barca si sta piano piano staccando dal porto e ci dirigiamo verso la Grande Barriera Corallina...
martedì 7 agosto 2012
Uluru
Ore: 19.25
In cuffia: Have you ever seen the rain?
Posizione: 380 Km a nord ovest di Alice Springs
Intorno a me: il deserto
Sopra di me: la volta celeste dell'inverno australe
Lasciamo Uluru intorno alle sei e mezza di sera, dopo una giornata iniziata alle cinque e circa 450 km giá percorsi.
Ayers Rock. Uluru nella lingua degli aborigeni Anangu.
Il freddo pungente del mattino lascia spazio al calore del deserto, mentre l'autobus sbuffa verso la sua prima destinazione, i monti Olgas. Quaranta minuti di cammino sotto il sole per arrivare in una gola travolta dal verde. I fiumi qui sono upside down, corrono sotto terra e da fuori si vedono solo dei ciuffi d'erba verde argento che rappresentano la principale fonte di nutrimento dei dromedari.
I dromedari furono importati qualcosa come 200 anni fa dall'Afghanistan e dal Pakistan. L'Australia, e questa è una perla che non vedevo l'ora di raccontare, é l'unico posto al mondo in cui i dromedari vivono allo stato brado.
Arriviamo ad Uluru nel primo pomeriggio, anche se il suo profilo ci ha seguito per tutto il giorno.
Un monolite dell'altezza di 320 metri, con una circonferenza totale di quasi 9 km e a circa 860 metri sul livello del mare. Questa é Uluru, oggi tornata di proprietà della comunità aborigena, che ne condivide la gestione per 99 anni con il governo australiano.
Uluru é avvolta nella leggenda, essendo il luogo in cui i giovani aborigeni venivano sottoposti a prove per poter entrare a far parte del mondo degli adulti. Cave e dipinti rupestri fatti con ocra e sangue raccontano della vita di uomini e donne che vivono secondo la Tjukurpa, la legge tradizionale Anangu.
Una delle leggende piú diffuse, tuttavia, é quella per la quale anni di sfortune si abbattono su chi osa trafugare pietre o sabbia da questo luogo sacro.
All'interno del Centro di cultura aborigena c'è una sezione dedicata alle sorry rocks, le rocce delle scuse. Una piccola montagna di sabbia e pietre ritornate al loro luogo originario dopo aver portato indicibili disgrazie a chi ha osato toglierle dal loro posto originario. Le lettere che accompagnano queste rocce sono fra le cose piú divertenti che mi sia capitato di leggere.
La scalata della roccia, sebbene fortemente sconsigliata dagli aborigeni in quanto si tratta di una sorta di affronto alla sacralità del posto, attira oggi molti turisti (soprattutto giapponesi) che si cimentano in una ferrata la maggior parte delle volte molto al di sopra delle loro possibilità. Un lungo elenco di uomini e donne morti per attacco cardiaco fa bella mostra di sé all'attacco della salita. Nel caso qualcuno fosse ancora un po' indeciso sul da farsi.
Il centro di cultura aborigeno all'ingresso del parco é ben fatto e ti cala in un'atmosfera magica, fatta di canti gutturali e danze tradizionali.
Al margine di questo Uluru é una macchina macina soldi. Non c'è niente di spirituale né tantomeno emozionante nelle orde di turisti che ogni giorno arrivano qui per accalcarsi tutti insieme in un piazzale sorto a proposito, aspettare il tramonto e fare quelle 15/20 fotografie da mostrare orgogliosi, una volta a casa, a genitori, parenti, amici.
Intendiamoci bene, ero anch'io in questo gruppo di persone e sono molto felice di aver visto da vicino quello che da molti é reputato il simbolo dell'Australia, ma mi dispiace: niente di questo luogo incantevole mi é rimasto nel cuore. Troppo il contrasto fra i BBQ per turisti al tramonto e il valore che gli aborigeni danno a questo luogo. Qualcosa non funziona in questo modo di gestire le cose. Non puoi fare fotografie, ma puoi banchettare mentre qualcuno cerca di venderti timidamente i suoi dipinti. E nessuna delle spiegazioni che ho avuto finora mi ha convinto.
Sono ancora 12 ore ad Alice Springs. Devo assolutamente capire qualcosa di piú sugli aborigeni e il modo in cui é andata la loro integrazione. Ammesso che ci sia stata.
In cuffia: Have you ever seen the rain?
Posizione: 380 Km a nord ovest di Alice Springs
Intorno a me: il deserto
Sopra di me: la volta celeste dell'inverno australe
Lasciamo Uluru intorno alle sei e mezza di sera, dopo una giornata iniziata alle cinque e circa 450 km giá percorsi.
Ayers Rock. Uluru nella lingua degli aborigeni Anangu.
Il freddo pungente del mattino lascia spazio al calore del deserto, mentre l'autobus sbuffa verso la sua prima destinazione, i monti Olgas. Quaranta minuti di cammino sotto il sole per arrivare in una gola travolta dal verde. I fiumi qui sono upside down, corrono sotto terra e da fuori si vedono solo dei ciuffi d'erba verde argento che rappresentano la principale fonte di nutrimento dei dromedari.
I dromedari furono importati qualcosa come 200 anni fa dall'Afghanistan e dal Pakistan. L'Australia, e questa è una perla che non vedevo l'ora di raccontare, é l'unico posto al mondo in cui i dromedari vivono allo stato brado.
Arriviamo ad Uluru nel primo pomeriggio, anche se il suo profilo ci ha seguito per tutto il giorno.
Un monolite dell'altezza di 320 metri, con una circonferenza totale di quasi 9 km e a circa 860 metri sul livello del mare. Questa é Uluru, oggi tornata di proprietà della comunità aborigena, che ne condivide la gestione per 99 anni con il governo australiano.
Uluru é avvolta nella leggenda, essendo il luogo in cui i giovani aborigeni venivano sottoposti a prove per poter entrare a far parte del mondo degli adulti. Cave e dipinti rupestri fatti con ocra e sangue raccontano della vita di uomini e donne che vivono secondo la Tjukurpa, la legge tradizionale Anangu.
Una delle leggende piú diffuse, tuttavia, é quella per la quale anni di sfortune si abbattono su chi osa trafugare pietre o sabbia da questo luogo sacro.
All'interno del Centro di cultura aborigena c'è una sezione dedicata alle sorry rocks, le rocce delle scuse. Una piccola montagna di sabbia e pietre ritornate al loro luogo originario dopo aver portato indicibili disgrazie a chi ha osato toglierle dal loro posto originario. Le lettere che accompagnano queste rocce sono fra le cose piú divertenti che mi sia capitato di leggere.
La scalata della roccia, sebbene fortemente sconsigliata dagli aborigeni in quanto si tratta di una sorta di affronto alla sacralità del posto, attira oggi molti turisti (soprattutto giapponesi) che si cimentano in una ferrata la maggior parte delle volte molto al di sopra delle loro possibilità. Un lungo elenco di uomini e donne morti per attacco cardiaco fa bella mostra di sé all'attacco della salita. Nel caso qualcuno fosse ancora un po' indeciso sul da farsi.
Il centro di cultura aborigeno all'ingresso del parco é ben fatto e ti cala in un'atmosfera magica, fatta di canti gutturali e danze tradizionali.
Al margine di questo Uluru é una macchina macina soldi. Non c'è niente di spirituale né tantomeno emozionante nelle orde di turisti che ogni giorno arrivano qui per accalcarsi tutti insieme in un piazzale sorto a proposito, aspettare il tramonto e fare quelle 15/20 fotografie da mostrare orgogliosi, una volta a casa, a genitori, parenti, amici.
Intendiamoci bene, ero anch'io in questo gruppo di persone e sono molto felice di aver visto da vicino quello che da molti é reputato il simbolo dell'Australia, ma mi dispiace: niente di questo luogo incantevole mi é rimasto nel cuore. Troppo il contrasto fra i BBQ per turisti al tramonto e il valore che gli aborigeni danno a questo luogo. Qualcosa non funziona in questo modo di gestire le cose. Non puoi fare fotografie, ma puoi banchettare mentre qualcuno cerca di venderti timidamente i suoi dipinti. E nessuna delle spiegazioni che ho avuto finora mi ha convinto.
Sono ancora 12 ore ad Alice Springs. Devo assolutamente capire qualcosa di piú sugli aborigeni e il modo in cui é andata la loro integrazione. Ammesso che ci sia stata.
lunedì 6 agosto 2012
Welcome to Alice Springs
"Felicia, where the fuck are we?"
Ore 16.30. Anzac Hill, ai margini di Alice Springs. Su una panchina rivolta ad ovest aspetto il tramonto. Il sole caldo del deserto brucia la pelle, il vento fresco della notte che si sta avvicinando rende l'attesa dolce e piacevole. L'obiettivo é giá sulla macchina fotografica, la gente piano piano si raduna sulla collina aspettando quello che dovrebbe essere uno degli spettacoli per cui valga la pena spingersi fino qui.
Outback australiano. A migliaia di km da qualunque altra città sorge Alice Springs, cattedrale nel deserto. Circondata da quattro massicci rocciosi e avvolta in un alone di leggende misteriose, di aborigeni e conquistatori, pionieri e avventurieri.
Non c'è molto, ad Alice Springs. Due strade s'incrociano alla via principale, dove é un continuo susseguirsi di botteghe d'arte. Alcuni pezzi di una bellezza sensazionale, altri vere e proprie croste vendute a peso d'oro. Ho lasciato il cuore su un dipinto di mille colori. Chissà, magari prima di partire faccio una follia.
Fuoristrada dalle ruote coperte di sabbia rossa si incrociano lungo le strade che sembrano quelle del far west. Edifici bassi, insegne appese.
La storia di Alice Springs inizia nel 1861, quando tale John Stuart cercava una rotta verso nord attraverso l'Australia centrale. Il punto in cui si fermó e creó una stazione del telegrafo è il punto in cui oggi nasce Alice Springs. All'epoca peró l'insediamento si chiamava Stuart. Il nome Alice venne dato in onore della moglie del Direttore delle Poste, Ms. Alice Todd.
Siccome il primo palo del telegrafo era posizionato di fianco ad un corso d'acqua (quello che poi sarebbe stato chiamato Todd River), il nome che ne derivó fu Sorgenti di Alice, Alice Springs per l'appunto.
Il nome di questo posto desertico bruciato dal sole fa ancora piú sorridere se si considera che il fiume Todd di fiume ha solo il nome, visto che per la maggior parte dei giorni dell'anno é in secca.
Purtroppo, lo dico a malincuore, non c'è niente qui che faccia riferimento al film del 1994 che racconta le gesta di tre drag queen che attraversano il deserto australiano, da Sydney ad Alice Springs, a bordo di una corriera. Niente. Non un boa di struzzo, un CD, qualche gommina colorata. Niente di niente.
Sono le cinque e mezza. A 8000 km da casa il sole é giá basso sull'orizzonte occidentale.
Ore 16.30. Anzac Hill, ai margini di Alice Springs. Su una panchina rivolta ad ovest aspetto il tramonto. Il sole caldo del deserto brucia la pelle, il vento fresco della notte che si sta avvicinando rende l'attesa dolce e piacevole. L'obiettivo é giá sulla macchina fotografica, la gente piano piano si raduna sulla collina aspettando quello che dovrebbe essere uno degli spettacoli per cui valga la pena spingersi fino qui.
Outback australiano. A migliaia di km da qualunque altra città sorge Alice Springs, cattedrale nel deserto. Circondata da quattro massicci rocciosi e avvolta in un alone di leggende misteriose, di aborigeni e conquistatori, pionieri e avventurieri.
Non c'è molto, ad Alice Springs. Due strade s'incrociano alla via principale, dove é un continuo susseguirsi di botteghe d'arte. Alcuni pezzi di una bellezza sensazionale, altri vere e proprie croste vendute a peso d'oro. Ho lasciato il cuore su un dipinto di mille colori. Chissà, magari prima di partire faccio una follia.
Fuoristrada dalle ruote coperte di sabbia rossa si incrociano lungo le strade che sembrano quelle del far west. Edifici bassi, insegne appese.
La storia di Alice Springs inizia nel 1861, quando tale John Stuart cercava una rotta verso nord attraverso l'Australia centrale. Il punto in cui si fermó e creó una stazione del telegrafo è il punto in cui oggi nasce Alice Springs. All'epoca peró l'insediamento si chiamava Stuart. Il nome Alice venne dato in onore della moglie del Direttore delle Poste, Ms. Alice Todd.
Siccome il primo palo del telegrafo era posizionato di fianco ad un corso d'acqua (quello che poi sarebbe stato chiamato Todd River), il nome che ne derivó fu Sorgenti di Alice, Alice Springs per l'appunto.
Il nome di questo posto desertico bruciato dal sole fa ancora piú sorridere se si considera che il fiume Todd di fiume ha solo il nome, visto che per la maggior parte dei giorni dell'anno é in secca.
Purtroppo, lo dico a malincuore, non c'è niente qui che faccia riferimento al film del 1994 che racconta le gesta di tre drag queen che attraversano il deserto australiano, da Sydney ad Alice Springs, a bordo di una corriera. Niente. Non un boa di struzzo, un CD, qualche gommina colorata. Niente di niente.
Sono le cinque e mezza. A 8000 km da casa il sole é giá basso sull'orizzonte occidentale.
domenica 5 agosto 2012
Kangaroo Island a/r
Torni a casa da due giorni come quelli appena trascorsi e vorresti che non fossero ancora iniziati.
Due giorni su un'isola dove il tempo sembra essersi fermato a cento anni fa. Trenta km di lunghezza, tre fari e mezzo milione di pecore. Oltre ovviamente a canguri, wallabies, koala, foche, pinguini, opossum...
Lasciamo Adelaide alle sei del mattino, quando i bar sono ancora pieni del venerdì sera e ci dirigiamo circa 90 km piú a sud, a Cape Jervis, dove ci aspetta il traghetto che in 45 minuti ci porterà su quell'isola bassa e sferzata dal vento che giá in lontananza si può intravedere.
Il gruppo é di solo cinque persone, compagni di viaggio giovani, curiosi e intelligenti il cui ricordo rimarrà sempre legato a quest'isola.
KI é una meta lasciata ancora un po' ai margini delle grandi rotte turistiche, un piccolo gioiello che guarda verso il Polo circondato da un mare burrascoso. E pieno di animali. Di giorno come di notte, si incontrano canguri, wallabies ed echidna. Sull'isola vivono niente meno che 243 specie di uccelli, alcune di queste rare o addirittura in via d'estinzione.
Proprio perché quest'isola è sempre stata considerata una sorta di zoo all'aria aperta, negli anni '20 si pensó di portare sull'isola i koala, che in teoria non sono originari di questa zona. La paura di molti era che fossero a rischio estinzione e si credette che Kangaroo Island rappresentasse la loro sicurezza per il futuro. Per ironia della sorte, il numero di koala é talmente aumentato che questi animali rischiano addirittura di non avere risorse sufficienti per sopravvivere e rischiano di morire di fame. Purtroppo il grande incendio del 2007, che ha distrutto quasi la metá del bush dell'isola, ha contribuito non poco ad aumentare questo problema.
KI é il luogo meno inquinato d'Australia. Non stupisce che, in mancanza di sorgenti, gli abitanti dell'isola bevano acqua piovana. E anche noi. Ovviamente se escludiamo le cinque Coopers Ale di sabato sera.
La vita sull'isola procede con assoluta calma. E in pochi minuti ne fai parte anche tu.
La serata é dedicata all'Aussie BBQ che durante la sua preparazione vede l'arrivo anche di un opossum e di una mamma canguro, che si avvicina nella speranza di aver qualcosa da mangiare. Nel marsupio un piccolo baby roo.
Lasciamo l'isola la sera successiva, dopo aver camminato portati dal vento, aver incontrato le otarie orsine della Nuova Zelanda, aver fatto sand boarding a Little Sahara e aver visto da un metro i leoni marini australiani. Salutiamo Dave, la nostra guida "australotedesca", sbracciandoci dal ponte alto del traghetto, intanto che l'isola lentamente si allontana e noi entriamo nel mare in tempesta.
Arriviamo a Cape Jervis al tramonto. Una gremita colonia di pinguini se ne sta pigra sulle rocce. Il sole sta lentamente tramontando e all'orizzonte, fra le onde, fa capolino una coppia di delfini.
Mentre scrivo non riesco a non avere un po' di nostalgia per questi strani compagni di viaggio.
Due giorni su un'isola dove il tempo sembra essersi fermato a cento anni fa. Trenta km di lunghezza, tre fari e mezzo milione di pecore. Oltre ovviamente a canguri, wallabies, koala, foche, pinguini, opossum...
Lasciamo Adelaide alle sei del mattino, quando i bar sono ancora pieni del venerdì sera e ci dirigiamo circa 90 km piú a sud, a Cape Jervis, dove ci aspetta il traghetto che in 45 minuti ci porterà su quell'isola bassa e sferzata dal vento che giá in lontananza si può intravedere.
Il gruppo é di solo cinque persone, compagni di viaggio giovani, curiosi e intelligenti il cui ricordo rimarrà sempre legato a quest'isola.
KI é una meta lasciata ancora un po' ai margini delle grandi rotte turistiche, un piccolo gioiello che guarda verso il Polo circondato da un mare burrascoso. E pieno di animali. Di giorno come di notte, si incontrano canguri, wallabies ed echidna. Sull'isola vivono niente meno che 243 specie di uccelli, alcune di queste rare o addirittura in via d'estinzione.
Proprio perché quest'isola è sempre stata considerata una sorta di zoo all'aria aperta, negli anni '20 si pensó di portare sull'isola i koala, che in teoria non sono originari di questa zona. La paura di molti era che fossero a rischio estinzione e si credette che Kangaroo Island rappresentasse la loro sicurezza per il futuro. Per ironia della sorte, il numero di koala é talmente aumentato che questi animali rischiano addirittura di non avere risorse sufficienti per sopravvivere e rischiano di morire di fame. Purtroppo il grande incendio del 2007, che ha distrutto quasi la metá del bush dell'isola, ha contribuito non poco ad aumentare questo problema.
KI é il luogo meno inquinato d'Australia. Non stupisce che, in mancanza di sorgenti, gli abitanti dell'isola bevano acqua piovana. E anche noi. Ovviamente se escludiamo le cinque Coopers Ale di sabato sera.
La vita sull'isola procede con assoluta calma. E in pochi minuti ne fai parte anche tu.
La serata é dedicata all'Aussie BBQ che durante la sua preparazione vede l'arrivo anche di un opossum e di una mamma canguro, che si avvicina nella speranza di aver qualcosa da mangiare. Nel marsupio un piccolo baby roo.
Lasciamo l'isola la sera successiva, dopo aver camminato portati dal vento, aver incontrato le otarie orsine della Nuova Zelanda, aver fatto sand boarding a Little Sahara e aver visto da un metro i leoni marini australiani. Salutiamo Dave, la nostra guida "australotedesca", sbracciandoci dal ponte alto del traghetto, intanto che l'isola lentamente si allontana e noi entriamo nel mare in tempesta.
Arriviamo a Cape Jervis al tramonto. Una gremita colonia di pinguini se ne sta pigra sulle rocce. Il sole sta lentamente tramontando e all'orizzonte, fra le onde, fa capolino una coppia di delfini.
Mentre scrivo non riesco a non avere un po' di nostalgia per questi strani compagni di viaggio.
giovedì 2 agosto 2012
Great Ocean Road
Rientro ora, dopo circa 600 km di autobus. La sabbia ancora nelle scarpe e sulle guance il calore di quando si torna a casa, dopo una giornata all'aria fredda.
Partenza ore 07.20. Destinazione Great Ocean Road.
243 km lungo la costa sud-orientale australiana, da Torquay a Warrnambool. Stretti tornanti a picco sul mare (che ho sentito uno per uno), in una giornata di grandi nuvole e improvvise schiarite.
La strada fu costruita dai reduci australiani della Prima Guerra Mondiale, che impiegarono quasi 15 anni per completarla, procedendo passo a passo, aprendosi la strada a forza di dinamite nella foresta pluviale.
Prima tappa: BELLS BEACH
http://www.youtube.com/watch?v=c2hRVdUQssc&sns=em
Una calma piatta, una quiete quasi surreale. L'oceano, ancora sonnolento, si affaccia alla terra con lentezza. Non sembra essere davvero la spiaggia della scena finale di Point Break...
E infatti non la é. La tempesta dei 50 anni é davvero a Bells Beach, ma la scena é stata girata in California, per evidenti questioni di costo. Un'altra piccola illusione che se ne va.
Lasciata per un attimo la costa, ci muoviamo verso l'interno fino ad arrivare all'Otway National Park, dove vivono un'infinità di koala. Io ne ho visto uno. Piccolo. Eccolo.
Come avrete modo di ascoltare dal secondo contributo multimediale (stasera sono particolarmente ispirata), il koala non é un orso. Gli orsi, tra l'altro, non esistono in Australia. Il koala ha più familiarità con un canguro che con un orso. É ovvio che sia per la sua "marsupialità", ma la cosa mi ha lasciato un po' incredula.
http://www.youtube.com/watch?v=-T3-0SZdkAQ&feature=youtube_gdata_player
Dopo questa canzone, vedrete la musica da un'altra prospettiva.
Altro importante momento faunistico della giornata é stato l'incontro con i King Parrots, dei piccoli parrocchetti senza vergogna che farebbero qualunque cosa per qualche semino. Uno di questi é diventato molto amico mio.

Continuiamo per arrivare a quella che ufficialmente rappresenta il motivo di questi 600 km. Per quanto mi riguarda, già aver giocato per due minuti della mia giornata con qualche bestiolina mi ha reso una persona felice. Ma visto che la flotta di coreane sul bussino con me non é dello stesso parere (e anzi, avrebbe fatto volentieri a meno della parentesi aviaria), proseguiamo per i 12 Apostoli.
Scendi dall'autobus, fai quattro scalini e sono lí. E tu sei senza fiato.
L'ultima parte della giornata, col sole che sta lentamente calando, é un susseguirsi di rocce erose dal vento e mangiate dal mare, di racconti di navi naufragate, capitani impavidi e ciurme scorbutiche.
É quasi buio. Guardi un'ultima volta l'orizzonte, respirando una volta in piú il profumo del mare. E come se ancora oggi non fosse stato abbastanza, dal pelo dell'acqua, in lontananza, fanno capolino tre balene, che si muovono piano. Il Giappone ha iniziato la caccia. Le balene si stanno spostando a sud.
Domani sveglia presto. Si parte per Adelaide.
PICCOLA NOTA A PIÉ DI PAGINA
Occorre aggiungere solo un ultimo piccolo dettaglio. La giornata di oggi non era inizialmente prevista nel mio percorso ed é stato grazie ad una particolare serata a base di rum con persone che non vedevo da tempo se oggi sono qui. E devo dire grazie.
Partenza ore 07.20. Destinazione Great Ocean Road.
243 km lungo la costa sud-orientale australiana, da Torquay a Warrnambool. Stretti tornanti a picco sul mare (che ho sentito uno per uno), in una giornata di grandi nuvole e improvvise schiarite.
La strada fu costruita dai reduci australiani della Prima Guerra Mondiale, che impiegarono quasi 15 anni per completarla, procedendo passo a passo, aprendosi la strada a forza di dinamite nella foresta pluviale.
Prima tappa: BELLS BEACH
http://www.youtube.com/watch?v=c2hRVdUQssc&sns=em
Una calma piatta, una quiete quasi surreale. L'oceano, ancora sonnolento, si affaccia alla terra con lentezza. Non sembra essere davvero la spiaggia della scena finale di Point Break...
E infatti non la é. La tempesta dei 50 anni é davvero a Bells Beach, ma la scena é stata girata in California, per evidenti questioni di costo. Un'altra piccola illusione che se ne va.
Lasciata per un attimo la costa, ci muoviamo verso l'interno fino ad arrivare all'Otway National Park, dove vivono un'infinità di koala. Io ne ho visto uno. Piccolo. Eccolo.
Come avrete modo di ascoltare dal secondo contributo multimediale (stasera sono particolarmente ispirata), il koala non é un orso. Gli orsi, tra l'altro, non esistono in Australia. Il koala ha più familiarità con un canguro che con un orso. É ovvio che sia per la sua "marsupialità", ma la cosa mi ha lasciato un po' incredula.
http://www.youtube.com/watch?v=-T3-0SZdkAQ&feature=youtube_gdata_player
Dopo questa canzone, vedrete la musica da un'altra prospettiva.
Altro importante momento faunistico della giornata é stato l'incontro con i King Parrots, dei piccoli parrocchetti senza vergogna che farebbero qualunque cosa per qualche semino. Uno di questi é diventato molto amico mio.

Continuiamo per arrivare a quella che ufficialmente rappresenta il motivo di questi 600 km. Per quanto mi riguarda, già aver giocato per due minuti della mia giornata con qualche bestiolina mi ha reso una persona felice. Ma visto che la flotta di coreane sul bussino con me non é dello stesso parere (e anzi, avrebbe fatto volentieri a meno della parentesi aviaria), proseguiamo per i 12 Apostoli.
Scendi dall'autobus, fai quattro scalini e sono lí. E tu sei senza fiato.
L'ultima parte della giornata, col sole che sta lentamente calando, é un susseguirsi di rocce erose dal vento e mangiate dal mare, di racconti di navi naufragate, capitani impavidi e ciurme scorbutiche.
É quasi buio. Guardi un'ultima volta l'orizzonte, respirando una volta in piú il profumo del mare. E come se ancora oggi non fosse stato abbastanza, dal pelo dell'acqua, in lontananza, fanno capolino tre balene, che si muovono piano. Il Giappone ha iniziato la caccia. Le balene si stanno spostando a sud.
Domani sveglia presto. Si parte per Adelaide.
PICCOLA NOTA A PIÉ DI PAGINA
Occorre aggiungere solo un ultimo piccolo dettaglio. La giornata di oggi non era inizialmente prevista nel mio percorso ed é stato grazie ad una particolare serata a base di rum con persone che non vedevo da tempo se oggi sono qui. E devo dire grazie.
mercoledì 1 agosto 2012
Chiarezza sugli UGG
Ricordo con precisione il primo paio di UGG che ho comprato. Era intorno a Santa Lucia del 2004 ed ero a Monza. Devo dire che non mi piacevano fino in fondo, ma sapevo che stavano diventando di moda e sentivo che non avrei potuto farne a meno.
Quasi 10 anni dopo, gli scarponcini pelosi hanno fatto tanta strada e io con loro.
Per chi non lo sapesse, la loro origine é australiana e qui si possono acquistare praticamente ovunque: ce ne sono di ogni colore, forma, misura. Tutti uguali e tutti diversi.
Per prima cosa tiriamo via qualunque dubbio sulla pronuncia. In questi anni ho sentito i piú svariati tentativi, ma senza alcun timore posso affermare che l'unico modo corretto per pronunciare il loro nome é, perdonate la trascrizione fonetica brutale, AGG. Da "ugly", che significa brutto. Giá, perché hanno tante qualità... Ma belli belli non sono.
La storia narra che questi scarponcini furono inventati da un tizio alla periferia di Sydney che di mestiere fabbricava tavole da surf. Un bel giorno un surfista andò da lui lamentandosi del freddo che aveva ai piedi una volta uscito dall'acqua. Per tutta risposta questo eccentrico signore creó delle puzzolenti babbucce di montone che, sempre secondo la storia, avevano il difetto di essere talmente grezze che camminando per strada i cani cercavano i morsicarle. In seguito si cercó di renderle un po' piú presentabili e un fabbricante di gomma ebbe la folgorante idea di aggiungere una suola. Ecco fatti gli UGG. Come sempre in queste storie, l'inventore é destinato ad essere un milionario mancato. Il tizio di Sydney, infatti, non era particolarmente interessato ad aumentare ulteriormente il suo giro d'affari e vendette l'idea ad una azienda americana per l'equivalente di 10000 sterline e la garanzia di avere ogni anno tre paia di scarponcini gratis. Quello che accadde dopo é di dominio pubblico.
Contrariamente a quanto si possa pensare, l'Australia é piena di questo tipo di stivali e quasi nessuno ha lo stesso logo e la stessa etichetta che siamo abituati a vedere noi.
Qui qualunque stivale di pelle di pecora si chiama UGG. É come dire "mocassino". Ma piú morbido. E peloso.
Per essere originali devono solo avere il cartellino "australian made". I prezzi sono vari, ma non ho ancora visto un paio superare i 120 AUD.
A questo punto fa sorridere che quelli che compriamo noi, a cifre stellari, sono in realtà Made in China.
Quasi 10 anni dopo, gli scarponcini pelosi hanno fatto tanta strada e io con loro.
Per chi non lo sapesse, la loro origine é australiana e qui si possono acquistare praticamente ovunque: ce ne sono di ogni colore, forma, misura. Tutti uguali e tutti diversi.
Per prima cosa tiriamo via qualunque dubbio sulla pronuncia. In questi anni ho sentito i piú svariati tentativi, ma senza alcun timore posso affermare che l'unico modo corretto per pronunciare il loro nome é, perdonate la trascrizione fonetica brutale, AGG. Da "ugly", che significa brutto. Giá, perché hanno tante qualità... Ma belli belli non sono.
La storia narra che questi scarponcini furono inventati da un tizio alla periferia di Sydney che di mestiere fabbricava tavole da surf. Un bel giorno un surfista andò da lui lamentandosi del freddo che aveva ai piedi una volta uscito dall'acqua. Per tutta risposta questo eccentrico signore creó delle puzzolenti babbucce di montone che, sempre secondo la storia, avevano il difetto di essere talmente grezze che camminando per strada i cani cercavano i morsicarle. In seguito si cercó di renderle un po' piú presentabili e un fabbricante di gomma ebbe la folgorante idea di aggiungere una suola. Ecco fatti gli UGG. Come sempre in queste storie, l'inventore é destinato ad essere un milionario mancato. Il tizio di Sydney, infatti, non era particolarmente interessato ad aumentare ulteriormente il suo giro d'affari e vendette l'idea ad una azienda americana per l'equivalente di 10000 sterline e la garanzia di avere ogni anno tre paia di scarponcini gratis. Quello che accadde dopo é di dominio pubblico.
Contrariamente a quanto si possa pensare, l'Australia é piena di questo tipo di stivali e quasi nessuno ha lo stesso logo e la stessa etichetta che siamo abituati a vedere noi.
Qui qualunque stivale di pelle di pecora si chiama UGG. É come dire "mocassino". Ma piú morbido. E peloso.
Per essere originali devono solo avere il cartellino "australian made". I prezzi sono vari, ma non ho ancora visto un paio superare i 120 AUD.
A questo punto fa sorridere che quelli che compriamo noi, a cifre stellari, sono in realtà Made in China.
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